Select An AI Action To Trigger Against This Article
Avvertenza. Il linguaggio di questa rubrica è diretto ed esplicito.
Per i primi quindici anni del nostro matrimonio mio marito, un alcolizzato sempre molto cortese e lucido, non ha fatto altro che scopare in giro. Le altre donne erano tutte “colleghe infelicemente sposate” tenute alla discrezione. All’epoca io trovavo la nostra vita sessuale piuttosto normale.
I nodi sono venuti al pettine quando ho scoperto una sua tresca che andava avanti da due anni. L’ho cacciato di casa. Lui ha smesso di bere e, siccome avevamo i figli piccoli, io me lo sono ripreso. Nei successivi trent’anni è rimasto sobrio, ma si è trasformato in una tartaruga: si è rinchiuso nel guscio, ha abbandonato gli amici, si è rifiutato di esprimere opinioni e prendere decisioni. Non ha più voluto neanche scegliere un ristorante o un programma alla televisione. Ha evitato qualunque intimità, fisica ed emotiva, con me o con chiunque altra. Il nostro matrimonio è diventato una pura transazione: io sono il capo, lui la manodopera. Non facciamo sesso praticamente da venticinque anni.
Perché non me ne sono andata? È una faccenda complicata, ma c’entrano molto i nostri due figli adulti. Hanno entrambi gravi problemi di salute, che ci hanno costretti a mettere da parte un bel gruzzolo. Nel corso degli anni mio marito ha partecipato a migliaia di incontri degli alcolisti anonimi ed è stato da una decina di analisti, da solo e con me. L’unica cosa che è cambiata, solo negli ultimi tempi, è che finalmente ha voglia di parlare, ma solo di sé. Non ha nessun trauma infantile né d’altro genere da raccontare. Come mai smettendo di bere si è trasformato in un monaco? O non lo sa, o non vuole dirlo. Sono curiosa di sapere cosa ne pensi tu.
– Vibes Only Marriage
Per i primi quindici anni tuo marito è stato un alcolizzato molto lucido che ti riempiva di corna – ma sempre badando a farlo solo con donne sposate e infelici che avrebbero mantenuto il segreto – e per i successivi trenta è stato un monaco privo di emozioni. Quindi tu hai continuato ad arrancare, facendo quel che andava fatto, per quarantacinque anni, quasi tutti passati senza fare sesso.
Per rendere sopportabile il vostro matrimonio, Vom, hai trovato una spiegazione che ti ha permesso di rimanere accanto a lui: tuo marito era quello che era, e il vostro matrimonio è diventato quello che è – perché tuo marito ha vissuto un trauma significativo. Ma quando finalmente si è aperto con te sul suo passato – dopo tutti quegli anni di riunioni degli alcolisti anonimi e tutti quegli analisti – è saltato fuori che non c’era nessun evento particolarmente traumatico che potesse dare un senso al tutto. Nessun prete molesto, nessun genitore violento, nessuna sonda anale su un’astronave aliena.
A meno di non considerare il trauma che ha inflitto con il suo alcolismo a te, a se stesso, ai vostri figli e a chissà quanti altri, Vom, che mi pare altrettanto significativo.
Forse dopo tutto il caos, i sensi di colpa e le promesse infrante dei suoi anni da alcolizzato, non sapeva o non voleva più comportarsi da essere umano, tantomeno da marito. Perciò si è inabissato nel silenzio e nell’ottusità, e ha scaricato su di te il fardello emotivo di tutte le decisioni da prendere. E ha funzionato almeno fino a un certo punto, no? I figli li avete tirati su, quel gruzzolo l’avete messo da parte. Lui si è mantenuto astemio e fedele. E ora eccovi qui.
Che fare? È troppo tardi per ricostruire da capo il tuo matrimonio – quel treno l’hai perso – e dopo quarantacinque anni forse è troppo tardi per mettervi fine. Perciò, puoi rassegnarti al fatto che il vostro rapporto è stato quello che è stato (e a quanto pare per te è stato traumatico) e vivere il resto dei tuoi giorni insieme all’uomo accanto al quale hai costruito una vita, pur senza condividerla. Oppure puoi darti il permesso di volere di più. Anche se quel qualcosa in più è solo un capitolo in cui puoi scegliere cosa guardare alla televisione senza permettere all’apatia di tuo marito di interferire.
E se, quando lo ascolti parlare di sé, non trovi la comprensione o la risoluzione che speravi, Vom, non sei tenuta ad ascoltarlo. Per quello ci sono gli analisti.
Illustrazione di Francesca Ghermandi
A tre anni mio cugino (registrato come femmina alla nascita) ha detto a tutti che era un maschio. La mia famiglia si è limitata a rispondergli ridendo che no, non lo era. Lui ha continuato a sentirsi tale fino all’età di circa sette anni. Portava vestiti da maschio e non gli piaceva essere chiamato femmina. Veniamo da una famiglia cattolica del Montana, ma siamo perlopiù liberali. Gli altri, specie i nonni, faticano ad appoggiare i parenti gay, ma ci hanno sempre provato. Io ho dieci anni in più di mio cugino, quindi all’inizio di questa storia avevo circa tredici anni.
Lui, che era sempre stato un ragazzino chiassoso, crescendo si è fatto più riservato, interessato ai pelouche e a poco altro. I suoi genitori avevano anche altri problemi, quindi forse avrà avuto parecchi motivi per disinteressarsi al resto, ma io ho sempre temuto che fosse perché è trans ed è stato costretto a vivere come donna cisgender per mancanza di appoggio. Nel corso degli anni ho pensato spesso se non fosse il caso di parlargli della sua identità, però non siamo mai stati così legati. Ho appena letto l’autobiografia di Dylan Mulvaney, e ho pensato a quanto dev’essere stato doloroso per lei dire alla madre che era una femmina a quattro anni, ma senza poter vivere da donna per i successivi venti. Non voglio che accada lo stesso a mio cugino, che ne compirà ventuno quest’anno. So bene che il mio senso di colpa per come lo ha trattato la nostra famiglia non è un motivo valido per agire, ma penso a un futuro possibile in cui lui si dichiarerà e sentirà di non essere mai stato appoggiato. Devo aspettare fino a quel momento, se mai arriverà? O devo provarci prima? Mi sto sforzando di appoggiarlo in generale, e di creare con lui un rapporto che vada al di là delle cene in famiglia durante le feste.
– Conflicted Over Unstated Support Involving Nibling
Per la cronaca: alcune persone afab (registrate come femmine alla nascita) che insistono a dirsi maschi e si vestono da maschi, da adulte diventano uomini trans. Altre invece no. Alcune da adulte diventano donne cisgender – spesso lesbiche – ed erano semplicemente dei maschiacci da bambine. E poi #Nontuttigliuominitrans erano dei maschiacci, #Nontutteledonnecis erano delle femminucce: l’identità e l’espressione di genere sono due cose diverse, e tutta questa roba è complicatissima, e adesso ho bisogno di un drink.
Questa situazione ha due rischi, Cousin: non fare niente e lasciare che tuo cugino si senta privo di appoggio nel caso sia trans non dichiarato e faccia fatica, o intervenire e dare per scontate cose che potrebbero offenderlo come anche riaprire vecchie ferite nel caso in cui non lo sia. Se tuo cugino deve ancora raccapezzarsi, o se già lo ha fatto ma non è pronto a condividere quel che ha scoperto (cioè di essere trans), oppure se non c’è nulla da condividere (perché è cisgender), la temibile domanda diretta, quella che io spesso raccomando, avrà molto probabilmente l’effetto opposto a quello desiderato.
Quando ero ragazzino i parenti che facevano battute omofobe in mia presenza non hanno espresso appoggio ai primi sospetti che io fossi gay. Si sono zittiti e basta. Se mi avessero chiesto della mia omosessualità prima che fossi pronto a fare coming out sarei andato nel panico, avrei negato e probabilmente sarei rimasto represso molto più a lungo. Quello che mi serviva, quello che avrebbero potuto fare ai primi sospetti che io fossi gay, era dire cose positive sul conto dei gay in mia presenza.
Non sarà difficile far capire a tuo cugino che sei dalla sua parte, ammesso che ci sia una parte da prendere. Le questioni trans e queer sono all’ordine del giorno, grazie ai continui attacchi da parte della presidenza di Donald Trump. Se pensi di poter aspettare, puoi esprimere la tua disapprovazione per questi attacchi all’intera famiglia durante la prossima cena; se non credi di poter aspettare, e pensi che tuo cugino sia in crisi, puoi esprimerla nella chat di gruppo di famiglia.
P.s. Potresti anche dire a tuo cugino che stai per passare dalle parti del suo college per un viaggio – non c’è bisogno che sappia di essere lui il motivo del viaggio – e portarlo a cena. Se vorrà aprirsi, lo farà. In caso contrario, terrà la bocca chiusa.
*** Mi sembra che siamo inondati regolarmente da notizie di adulti che hanno avuto contatti sessuali con minorenni. Nella maggior parte dei casi si tratta di adolescenti e non di bambini in età prepuberale. Spesso però si fa di tutta l’erba un fascio, definendo tutti questi stupratori o aspiranti “pedofili”. È una cosa che immagino dia soddisfazione a chi la urla contro qualcuno che disprezza, ma è imprecisa. Google mi dice che esistono due termini tecnici: “ebefilia” (o attrazione per i minori nella prima adolescenza) ed “efebofilia” (attrazione per i minori nella tarda adolescenza). Non sono parole esattamente facili da pronunciare, il che significa che non attecchiranno mai. Sarò pedante, ma mi urta quando la parola “pedofilia” viene usata per riferirsi a adulti violenti che, però, non hanno stuprato bambini in età prepuberale. Credo che si possa e si debba operare una distinzione morale fra l’adulto che ha stuprato un bambino di nove anni e quello che ha manipolato a fini sessuali un adolescente privo della maturità emotiva necessaria a esprimere un consenso informato. Sono entrambe cose spregevoli, ma non hanno la stessa gravità. Sono pazzo io a farci caso? Devo farlo notare alla gente?
– Pointing Errant Definitions Out
Non sei pazzo a farci caso, Pedo, e non saresti il primo a farlo notare, ma prima che tu cominci a scriverne sui social network, allarghiamo per un attimo l’inquadratura: “pedofilo” è chi è attratto sessualmente dai bambini in età prepuberale, un “ebefilo” è attratto da minori che attraversano la pubertà (fra gli undici e i quattordici anni), un “efebofilo” è attratto dagli adolescenti tra i quindici e i diciannove anni. È improbabile però che queste distinzioni, spesso applicate da terapeuti e pubblici ministeri, attecchiscano presso il grande pubblico.
Ora: io credo che si possa operare una distinzione moralmente significativa tra chi ha stuprato un bambino di nove anni e chi ha manipolato a fini sessuali un adolescente, maturo sessualmente ma non emotivamente, che non ha raggiunto l’età legale del consenso. Sono tutti e due reati, ma non sono lo stesso reato. Non credo tuttavia che si possa operare una distinzione morale tra l’adulto che ha stuprato un bambino di nove anni e quello che ne ha stuprato uno di undici. Si tratta esattamente dello stesso reato.
Tornando al punto: anche se tecnicamente hai ragione, Pedo, chi interviene sul tema dello stupro di bambini dicendo “Be’, in realtà…” – anche per ribadire una posizione legittima – rischia di passare per uno che cerca giustificazioni ai molestatori sessuali in stile #Nontuttiipedofili. Perciò, se è vero che il termine “pedofilo” viene applicato indifferentemente a stupratori seriali di bambini in età prepuberale, a chi si scopa (o si fa scopare da) un adolescente che non ha l’età del consenso in uno stato ma ce l’ha nello stato accanto, e agli adulti trentenni che frequentano adulti ventenni, è quasi impossibile far capire alla gente perché sia nocivo “fare di tutta l’erba un fascio”.
Non è granché utile chiedere di quale tipo di pedofilia si stia parlando quando si vede un titolo di giornale: è stato violentato un bambino? Un diciannovenne è andato a letto con una diciassettenne? Un quarantenne si è sposato con una ventenne? Come dicono i linguisti, “il significato segue l’uso”, ma far sembrare più riprovevoli le relazioni con una grande differenza d’età paragonandole a un interesse sessuale per i bambini rischia di rendere la pedofilia meno riprovevole, associandola a qualcosa che, in molti casi, non lo è.
Puoi sempre provare a educare le persone su questo tema se proprio ci tieni. Preparati, però: a nessuno piace il tizio che insiste sull’uso della terminologia precisa quando il tema è lo stupro di bambini. Tu hai ragione, ma non importa a nessuno. E se insisti troppo, Pedo, la gente potrebbe cominciare a chiederti come mai a te importi così tanto.
(Traduzione di Francesco Graziosi)
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it