Il capolavoro a metà. Il Nome della Rosa diventa opera lirica: bello, bellissimo anzi no - HuffPost Italia


A new opera adaptation of Umberto Eco's "The Name of the Rose", while visually stunning and musically compelling in parts, falls short due to its vocal delivery and the libretto's lack of metrical-rhythmic polish.
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L’opera lirica è da decenni a secco di novità di pregio e a furia di limitarsi a riproporre i pur insuperati capolavori del suo vecchio repertorio rischia di trasformarsi in un’arte museale. Per questo è una bella notizia l’opera nuovissima che la Scala ha coprodotto con il Carlo Felice di Genova e l’Opéra national di Parigi, il Nome della rosa, tratta dal famoso romanzo di Umberto Eco e musicata da uno dei migliori odierni compositori, Francesco Filidei, che, con Stefano Busellato e altri, ha predisposto anche il libretto. La critica è stata entusiasta; e con più ragioni.

Il romanzo di Eco è ampio e complesso (o complicato) e ridurlo alla misura e all’efficienza drammaturgica di un testo da recitare cantando non era facile. Gli autori ci sono riusciti benissimo, salvando l’essenziale, e ordinandolo con rigore geometrico degno dello scrittore-giocoliere in una sequenza di giornate e stanze che la regia di Michieletto ha sfruttato magistralmente. Un caso, questo, in cui la regia, che spesso e volentieri maltratta o sovraccarica inutilmente le opere, ha giocato una parte determinante nel successo di questa, tanto che non si riesce a pensare come in futuro essa possa andare in giro se non nella veste sontuosa, audace, suggestiva vista alla Scala. In un’opera che si svolge tutta in un’abbazia nel Medioevo era indispensabile il coro (dei frati e di altri chierici): questo partecipa all’azione e al contempo la racconta dando voce al protagonista che la rievoca da vecchio: una soluzione geniale. La musica, specie quella strumentale, è riuscita benissimo nel compito di comunicare il colore sacro e religioso della vicenda, con inserti oratoriali, spazi di gregoriano, inni e salmi latini (Dies irae, Cantico dei cantici, Requiem ecc.): il tutto in un’orchestrazione straordinariamente ricca e varia, gradevolissima ed espressiva, dagli effetti travolgenti, specie grazie alle molteplici percussioni.

E il canto, questo ingrediente essenziale e primario del teatro musicale e, nella tradizione italiana, celebre per la sua personalità melodica? Qui, va detto, l’entusiasmo va ridimensionato. Se all’inizio sembra che l’opera si avvii promettente sullo stile del canto di conversazione del Puccini più innovativo (Fanciulla del West, Rondine, Trittico), poi non si smuove da questa formula, chiunque canti, anzi via via la smarrisce o annacqua per strada. Il canto non si distende quasi mai su un arco melodico più formato o meno ripetitivo, non solo nei recitativi ma anche in quelle che vorrebbero essere dei pezzi chiusi, strofici, insomma delle arie. Qualche eccezione c’è, si capisce, ma troppo poche e il compositore sembra arrendersi all’impotenza della partitura vocale moltiplicando nel finale il vero e proprio parlato.

Perché quest’opera, pur bellissima e per tanti aspetti convincente, non lo è stata, almeno a mio giudizio, altrettanto nel canto, nonostante un lavoro intelligente del compositore nella distribuzione delle voci (in un’abbazia c’era poco spazio per quelle femminili e in genere per le acute e chiare, e Filidei ha provveduto a moltiplicarle con ruoli en travesti e controtenori) e un cast di tutto rispetto? Tra le varie ragioni che più competenti di me potrebbero addurre, io propongo quella della lingua del libretto.

Il libretto, come dicevo, è dal punto di vista drammaturgico quanto di meglio si poteva desiderare. Ma sul piano verbale, delle parole, nonostante visibili sforzi degli autori, non mostra un adeguato smalto metrico- ritmico. Come si sa, questo è un grande problema del moderno canto lirico italiano, che, giustamente, non vuole abbandonare la lingua comune e la comune disposizione delle parole, ma, se non si procura delle regolarità almeno ritmiche (nella sequenza degli accenti), meglio se anche metriche (i versi) e rimiche (con il ricorso, almeno qualche volta, al potente ausilio della rima) non offre ai compositori molte opportunità di costruire frasi musicali compiute e memorabili.

Perché oggi non si riesca a dotare un testo da cantare di supporti metrico-ritmici utili per i musicisti è una domanda che si potrebbe girare a tutta la poesia moderna, molto prosaicizzata, anche se certi suoi grandi autori (Montale, Caproni…) hanno mostrato che può esserci ritmo musicale pur con lingua ordinaria. D’altra parte, i librettisti prenovecenteschi potevano contare sulle infinite risorse della lingua poetica tradizionale: accorciare, troncandole, le parole lunghe (fe’ per fede), spostare gli accenti (tenèbre), ricorrere a sinonimi poetici (desio invece di desiderio), rovistare nei lessici alla ricerca di voci rare, moltiplicare le metafore ecc., e, in più, avevano una tale familiarità con il metro e gli accenti dei versi che ne potevano scrivere su due piedi di perfetti. Questa consuetudine con una scrittura “misurata”, utile al canto, si è perduta e i pur ottimi autori del libretto del Nome della rosa non l’hanno ritrovata o voluta cercare. Filidei avrà sicuramente deciso questo trattamento del canto, apprezzabilmente robusto ma senza smalto, come opzione poetica non rinunciabile oggi per un moderno compositore. Però, forse, anche se è indispensabile l’appello di un riascolto, un capolavoro come questo Nome della rosa scaligero avrebbe entusiasmato più compiutamente se la scrittura del libretto e quindi del canto fosse stata all’altezza di quella magnifica del resto della partitura e della regia. 

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