Meloni e Trump nel disordine di un pianeta incattivito - La Stampa


The article analyzes the complex relationship between Giorgia Meloni and Donald Trump, highlighting the global political instability and questioning the implications of their alliance.
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“Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi”.

Sant’Agostino

Buona Pasqua. E sarebbe bello credere davvero in questo augurio, schiacciati dalla macabra contraddizione di una festa della Resurrezione che fa da umiliata cornice al disastro planetario. Lo dice il Papa: il mondo è in pezzi. Difficile dargli torto. L’Ucraina, Gaza, i dazi, l’Europa divisa, l’arroganza americana, la strana relazione speciale tra Giorgia Meloni e l’umorale Donald Trump. Sostenitore e propalatore di un linguaggio pubblico fatto di paura e inimicizia, in cui, in assenza di nemici veri, si inventano nemici finti, dai giudici ai professori universitari, dai giornalisti agli immigrati. C’era una volta l’America. Ma questa? La Nuova Casa Bianca delle deportazioni a tappeto e dello scontro con la Federal Reserve, con la Borsa e persino con la mitologica Corte Suprema, ama raccontare che siamo assediati dai selvaggi e che solo una maestosa prova di forza ci libererà dal male.

Come se non fosse esattamente questa cantilena a moltiplicare squilibri e tensioni, a generare paura.

Brava la premier italiana ad ammansire il wrestler di Mar-a-Lago nello studio Ovale, encomiabile (forse istintiva ma certamente necessaria) la sua capacità di parlare con lui, persino di farlo in qualche modo ragionare ipotizzando un ancora lontano tavolo di confronto. Ma con quale obiettivo? Per stare dalla parte di chi? Per concedere che cosa? A quale compromesso si arriva con chi si comporta da Al Capone? Il pedaggio da pagare per armi, industrie e, soprattutto, valori, non smette di crescere. E sarebbe interessante capire fino in fondo che cosa – al di là della complicata e ambigua realpolitik – ci unisce all’Imperialismo tecno-affaristico di nuovo conio. E quale affinità di idee e progetti ci tiene legati a Bruxelles.

La Capitale, paralizzata per l’arrivo del delfino JD Vance, con plotoni di poliziotti e netturbini schierati per difendere e far brillare la città, è il simbolo dell’aria che tira. Salutiamo i nuovi Cesari. «Roma, città costruita da chi ama gli esseri umani e Dio», scandisce ieratico il vicepresidente americano. Ed è impossibile vederlo inginocchiato a San Pietro, con le mani giunte, gli occhi rivolti al cielo e la splendida famiglia onorata dalle guardie svizzere, senza ragionare su quale tipo di Cristo si porti nel cuore. Un Dio di tutti? O un Signore bianco e ultranazionalista pronto a passare per la spada chiunque si allontani dai suoi canoni da piantagione di cotone? Parassiti incapaci di difendere i nostri confini e la libertà di parola, questo pensa e dice pubblicamente JD Vance di noi europei, così pronti a stendergli il tappeto rosso. Eppure, il vicepresidente dovrebbe conoscere bene la lezione di Sant’Agostino, da cui giura di essere stato folgorato dopo un’infanzia amara. «Sono tempi cattivi, dicono gli uomini. Vivano bene ed i tempi saranno buoni. Noi siamo i tempi», ammoniva il doctor gratiae. Canone che, evidentemente, vale solo per gli altri.

Sul Financial Times di ieri, lo storico Yuval Noah Harari descrive così l’amministrazione americana: «La soluzione dei problemi per Trump, che considera la vita un gioco a somma zero, è semplice: i più deboli fanno quello che vogliono i più forti. Motivo per cui le guerre ci sono solo quando i più deboli si rifiutano di accettare la realtà. Dunque, la colpa della guerra è loro». Analisi che spiega perché TheDonald detesti gli organismi internazionali, voglia smembrare la Nato, lasciare l’Organizzazione mondiale del commercio, affondare le Corti internazionali, far sparire l’Organizzazione mondiale della sanità e azzerare gli aiuti umanitari. Tutto ciò che riduce la sua forza consegnandola al controllo di altri, non produce valore condiviso – come testimoniano gli ottant’anni di pace postbellici – ma solo un ostacolo alla sua novecentesca volontà di potenza, rivitalizzata dal narcisismo visionario di una ristretta e aggressiva oligarchia tech. La sindrome dell’orango. Io sono King Kong. Noi siamo i gorilla. La giungla è nostra.

Ne parlavo ieri con il professor Massimo Cacciari (a cui sono debitore di molte riflessioni di questo articolo), domandandogli che effetto gli faccia questa ostentazione muscolare a stelle e strisce. Mi ha ricordato che la legge del più forte non è esattamente un inedito nella storia dell’uomo. «Basti pensare al dialogo tra gli Ateniesi e i Meli». In sintesi: gli Ateniesi vogliono portare i Meli in guerra contro i «fratelli» spartani. I Meli, deboli e destinati a soccombere, provano a sottrarsi invocando la legge. Alla fine, il più forte decide, il più debole china il capo. Che differenza c’è con oggi? «C’è una differenza abissale. Il discorso degli Ateniesi si fonda su una chiave filosofica altissima, legata all’idea che da una parte non c’è semplicemente la forza, ma c’è, come presupposto, la capacità di civilizzazione. Noi portiamo benessere politico, culturale ed economico. Usiamo la forza per aiutare la collettività a progredire. Non è proprio quello che l’Occidente, con qualche ragione, ha sostenuto nei secoli?» . Non è più così? «Non è più così da un pezzo. Non mi pare abbiamo molto da insegnare. Il ricorso alla forza non ha più nessuna legittimazione di tipo ideologico, giusta o sbagliata che sia. È solo diritto animale».

Un diritto alla prevaricazione esplicitato senza pudore dall’inner circle di Trump e Vance. «Non credo più che libertà e democrazia siano compatibili», dice Peter Thiel, fondatore di Palantir. E persino oltre si spinge Curtis Yarvin, filosofo anti-egualitario di estrema destra, fondatore dell’Illuminismo Oscuro noto con lo pseudonimo di Mencius Molbug. «Gli Stati Uniti sono vittime della Cattedrale, una cupola progressista invisibile che raduna media, università e apparato burocratico per plasmare il pensiero dominante. Loro sono i nemici. Lo Stato deve diventare un’azienda gestita da un amministratore delegato non eletto, inamovibile e dotato di pieni poteri. La cittadinanza non è un diritto politico ma una posizione contrattuale. I cittadini sono azionisti o utenti, il governo un servizio da ottimizzare attraverso la sovranità algoritmica». Quello che fino a cento giorni fa sarebbe sembrato un delirio, ora non assomiglia spaventosamente alla realtà? È questa la visione di cui si nutre la Casa Bianca. Questa la bussola del Tycoon di Mar-a-Lago. Meglio saperlo quando – e se – ci si siede ad un tavolo con lui. E meglio tenere anche presente la distanza – siderale – tra le parole e i fatti. La guerra in Ucraina, che sarebbe dovuta finire nel giro di 48 ore, continua la sua progressione devastante, con buona pace di chi giurava che sarebbe bastato rimuovere Biden per dimostrare all’Europa imbelle la volontà di Putin di firmare una tregua. A Gaza l’orrore non si ferma. Netanyahu ha carta bianca. Una mattanza disumana. E non si vede all’orizzonte una possibilità di cessate il fuoco. Eccolo qua il nuovo mondo per questa Santa Pasqua. Benvenuti nella trumpiana età dell’oro. Sediamoci, parliamo, trattiamo. A Roma o a Bruxelles. Non esiste alternativa. Senza dimenticare chi abbiamo di fronte. Senza accontentarci di una pacca sulla spalla, di una risata crassa e di un “facciamo l’Occidente Great Again”. «La fotografia è talmente chiara e limpida che dovrebbe spingere l’Europa al contraccolpo immediato. Rilanciamo l’Unione politica. Partiamo pure dalla difesa, ma seriamente. Rimettiamo al centro i pilastri sociali. Alziamoci in piedi consci dei nostri limiti», dice Cacciari, mentre un collega mi invia gli auguri accompagnati da una poesia di Emily Dickinson che sembra scritta apposta: «C’è un altro cielo, sempre sereno e bello, c’è un’altra luce del sole, sebbene sia buio là (…) ti prego, Fratello mio, vieni nel mio giardino». Buona Pasqua.

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