CITTA’ DEL VATICANO. «Bergoglio visitava spesso le baraccopoli di Buenos Aires. Erano il suo posto preferito. Gli piaceva stare in mezzo alle persone che vivevano nelle periferie più povere. Dedicava molto tempo alla gente bisognosa. Coltivava un legame profondo con i quartieri popolari». Poche ore dopo la morte di papa Francesco, parla l'amico di una vita e suo stretto collaboratore, padre Pepe, il sacerdote José Maria Di Paola. Il prete argentino guida da decenni comunità cristiane nelle villas miseria. A La Stampa racconta il legame profondo con il futuro Pontefice e il suo impegno tra gli ultimi della Terra.
IL LUTTO Domenico Agasso 21 Aprile 2025
Padre Pepe, come è nata e come è cresciuta la sua amicizia con Bergoglio? «L'ho conosciuto quando era Vescovo ausiliare di Buenos Aires. Avevo già rapporti con i preti delle villas, ma fu decisivo il suo incoraggiamento a lavorare proprio in quelle realtà. Io mi occupavo di pastorale giovanile e per l'infanzia, ma avevo il desiderio di stare tra i più poveri della città. Fu lui a volermi lì: la mia nomina venne firmata dal cardinale Quarracino, ma per volontà di Bergoglio. Così iniziai il mio servizio nella Villa 21, vivendo tra la gente e costruendo una parrocchia popolare. Con lui parlavamo molto di come dovesse essere una Chiesa radicata nella religiosità popolare, attenta ai bambini, capace di individuare leader positivi nei quartieri più difficili. Così nacque il Hogar de Cristo, una casa di accoglienza per chi era caduto nella disperazione. Per molti anni sono stato coordinatore dei preti delle villas, e il nostro dialogo era costante. La nostra amicizia è nata e cresciuta sul campo, in quella che lui chiamava la periferia».
Che cosa faceva Bergoglio quando visitava le villas? «Prima di tutto, ci andava spesso e con grande disponibilità. Erano il suo posto preferito. Gli piaceva stare in mezzo alla gente. Ricordo bene l'8 dicembre del 2000: Papa Giovanni Paolo II aveva chiesto ai vescovi di consacrare le loro diocesi alla Madonna. Pensai a un santuario per la celebrazione, ma Bergoglio disse: "No, niente di meglio che consacrare Buenos Aires nella Villa 21, davanti alla Madonna di Caacupé". Questo dimostra il suo legame profondo con i quartieri popolari. Dedicava generosamente tempo non solo ai preti delle villas, ma direttamente alla gente».
Com'era Bergoglio nella quotidianità? «Era un uomo semplice e sobrio. Sempre disponibile. Rispondeva personalmente al telefono in curia, senza delegare ai segretari. Questo accorciava i tempi e permetteva un dialogo diretto e costante. Inoltre, mai ha smesso di confessare nei santuari popolari: il 27 di ogni mese era al santuario della Medaglia Miracolosa, e il 7 a San Cayetano. Mai ha perso il contatto con le persone umili e semplici».
Un aneddoto sul vostro rapporto? «Una volta ero nel mio ufficio nella Villa e la gente bussava con insistenza alla porta. Infastidito, ho alzato la voce, senza sapere chi fosse. Quando ho aperto, ho trovato Bergoglio seduto in fila, in attesa del suo turno, con il rosario in mano. "Mi scusi, non sapevo che fosse qui", gli ho detto. Lui ha sorriso e ha lasciato passare ancora due o tre persone prima di entrare. Era fatto così».
Come ha reagito alla sua elezione nel 2013? «Ero nella Villa de San Martín, vivevo in una casetta di legno senza tv o radio. Quando l'ho saputo, non potevo crederci. Nel conclave precedente speravamo che fosse eletto, poi ci eravamo rassegnati. Pensavamo che il suo tempo fosse passato. Ho visto le immagini della sua apparizione in balcone solo la sera tardi. È stata una sorpresa enorme».
Il suo carattere è cambiato dopo l'elezione? «Ha sviluppato un'incredibile capacità comunicativa, che prima non aveva. Era riservato, parlava poco, sorrideva raramente. Ma il ruolo del Papa lo ha portato a esprimersi con parole e gesti più diretti. Questo dimostra la sua apertura e la forza dello Spirito Santo nell'accompagnare il successore di Pietro».
Quali sono stati i momenti chiave del suo pontificato? «La Giornata mondiale della Gioventù in Brasile, poco dopo la sua elezione: un incontro straordinario con tanti ragazzi. Poi la sua costante difesa degli ultimi: migranti, poveri, rifugiati. Ha messo i poveri al centro del Vangelo, come faceva Gesù. E poi le sue encicliche: “Laudato si’", “Fratelli tutti”, messaggi forti non solo per la Chiesa, ma per il mondo intero. Laudato si', per esempio, oggi è studiata in molte università e ha cambiato la prospettiva sulla cura del creato, portando un pensiero umanista e cristiano in un ambito prima visto solo in termini ambientalisti. Lui non ne ha fatto una bandiera, ma le ha dato un senso. C'era già chi, con grande buona volontà, si impegnava per la tutela dell’ambiente, ma spesso mettendo al centro questioni secondarie. Bergoglio, con la sua enciclica, ha invece riportato l’uomo al centro, insieme al resto del creato».
Francesco come ha inciso sulla Chiesa e sulla società? «Ha tracciato linee di rinnovamento che dovranno essere portate avanti dal suo successore. Ha spostato l'attenzione sul rapporto tra Chiesa e popolo, sottolineando la necessità di una riorganizzazione pastorale. Oggi ci sono meno preti e serve un nuovo modello: in passato una parrocchia aveva più sacerdoti, oggi un prete segue più parrocchie, con il supporto di religiosi e laici. Serve un'organizzazione coerente con i tempi, senza perdere di vista il cuore della missione evangelica».
Che cosa si aspetta per il futuro della Chiesa? «Che tutto ciò che è stato avviato venga consolidato in una struttura pastorale adeguata. Quando entrai in seminario eravamo duecento, oggi a Buenos Aires sono quaranta. Bisogna pensare a un'organizzazione efficace per non disperdere le comunità. Il Papa ci ha indicato una strada, ora servono decisioni concrete per portarla avanti».
In questi anni ha visto un riavvicinamento dei fedeli? «Nei luoghi in cui è possibile organizzare il lavoro, sì, senza dubbio. Non lo so… Noi abbiamo fatto esperienza diretta di questo nella "Villa de José León Suárez”. Quando abbiamo iniziato lì, la situazione era di forte regressione, di difficoltà economiche e sociali molto grandi. Poi, però, quando la gente ha visto che la Chiesa era presente, che non si limitava a parole ma portava avanti la sua missione concreta, qualcosa è cambiato. Il semplice fatto di esserci, di creare spazi di partecipazione, di celebrare messe aperte a tutti, ha cominciato a trasformare il tessuto sociale. Le cappelle non sono rimaste solo luoghi di culto, ma sono diventate anche mense per i più bisognosi. Durante la pandemia, ad esempio, tutte le cappelle della nostra parrocchia si sono trasformate in centri di accoglienza e distribuzione di pasti. Mentre in altre zone il lockdown ha portato a una diminuzione della partecipazione comunitaria, da noi è accaduto l’opposto: la crisi ha rafforzato il senso di solidarietà e ha dato nuova linfa alla comunità. Abbiamo visto persone avvicinarsi, spinti dal desiderio di aiutare: venivano dicendo "Anche io voglio fare questo. Posso aggiungermi?”. E la risposta era sempre "Sì, certo". Così la comunità è cresciuta, ha preso forza, si è allargata. Dopo il periodo più duro, quando è stato possibile, abbiamo organizzato un ritiro spirituale, e tanti di coloro che si erano avvicinati alla Chiesa per dare una mano hanno deciso di fare un passo in più: hanno partecipato, hanno preso parte alla messa, hanno ricevuto i sacramenti che magari non avevano mai ricevuto prima. Questo dimostra che quando la Chiesa entra in un quartiere con decisione e organizzazione, può davvero trasformare tutto. Noi parliamo delle tre "C": cappella, club e collegio. Questi tre elementi, insieme ad altre iniziative come il Hogar de Cristo, i gruppi di sostegno per uomini e donne, i ritiri spirituali, sono strumenti di cambiamento reale. Quando la Chiesa lavora su più livelli, con una strategia chiara e una presenza costante, i frutti si vedono. Ma per farlo servono determinazione e organizzazione da parte delle Chiese locali. Papa Francesco l’ha ripetuto spesso: è necessario creare percorsi stabili e strutturati per portare avanti questo lavoro. Lo vediamo con l’Amazzonia, con l’Africa, ma anche in America Latina, dove questa strategia pastorale è fondamentale per il futuro delle comunità».
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