The article begins by contrasting the unified right-wing coalition under Giorgia Meloni's leadership with the fragmented Italian center-left opposition. It highlights the historical precedent of strong leadership within the right, contrasting it with the current disunity on the left.
A key focus is the role of the Five Star Movement (M5S), led by Giuseppe Conte. The article points out that the M5S's unique origin and structure, once a source of strength, now contribute to its difficulties in coalition building. Its pursuit of independent action, driven by a desire to avoid being overshadowed by the PD (Democratic Party), is seen as a potential threat to the opposition's overall strategy.
Elly Schlein's leadership is critically examined, emphasizing the internal struggles within the PD and the external competition from Conte. The article suggests her ability to unify the party is key to successfully challenging the right-wing government.
The article concludes by stressing that the opposition's effectiveness hinges on Schlein's ability to manage internal divisions and counter Conte's strategies. The M5S's independent stance, while potentially beneficial in the short term, is deemed potentially detrimental to the long-term success of the opposition.
Lega e Forza Italia viaggiano su binari separati. Ma non fa problema perché tanto è chiaro chi è al comando. E nessuno pensa di sfilarsi dall’alleanza. Il problema dell’opposizione allora rimanda alla leadership
Il vantaggio competitivo della destra sta nella solidità della sua coalizione e nell’accettazione indiscussa della sua leadership. Lo stesso accedeva nel passato. La figura di Silvio Berlusconi svettava a tal punto che non c’era nemmeno da discutere. O meglio, quando provò a farlo, Gianfranco Fini ne uscì con le ossa rotte. Solo al momento del suo declino, anagrafico più ancora che politico, la destra si disunì.
Alle elezioni del 2018 la Lega superò Forza Italia e Matteo Salvini. E il leader leghista andò a governare insieme ai Cinque stelle nella convinzione di poter gestire i nuovi venuti e diventare il padrone del campo. Ipotesi che sembrò attuarsi con lo strepitoso successo alle europee dell’anno dopo, salvo poi finire annegata in un mojito.
Quel disastro ha convinto tutte le componenti della destra che solo presentandosi unite potevano vincere di nuovo. Di qui il successo (fortunoso) del 2022: con appena 12 milioni e trecentomila voti – meno di quelli che sono andati alle urne al referendum, ricorda maliziosamente Elly Schlein – la coalizione guidata da Giorgia Meloni è arrivata al governo . E la sinistra, divisa e rissosa, ha raccolto le briciole.
La segretaria del Pd sembra abbia appreso la lezione e continua a dichiararsi testardamente unitaria. Il problema è che il M5s recalcitra. Per due ragioni di fondo. La prima rimanda alla identità fondativa del partito, il suo essere nato in contraddizione e in alternativa a tutti partiti esistenti, con l’ambizione di rappresentare un tipo nuovo di formazione politica.
Il non-statuto, il rifiuto di farsi riconoscere ufficialmente come partito, la redistribuzione dei rimborsi elettorali, l’assenza di organismi elettivi e di strutture fisiche (per anni non c’è stata un sede nazionale ma solo un indirizzo internet), la mitologia delle rete, sono stati alcuni dei tratti innovativi che facevano dei Cinque stelle un mondo parte. Quell’assetto è scomparso da tempo.
Tuttavia il lungo processo con il quale alla fine del 2024 il M5s ha ridefinito la sua struttura recupera parte del mito fondativo. Il coinvolgimento di circa 22.000 scritti e simpatizzanti in un percorso articolato di democrazia partecipativa differenzia il processo decisionale dei pentastellati da tutti gli altri.
Il M5s rimane quindi un partito a sé stante dal punto di vista strutturale. In secondo luogo vuole mantenere una sua connotazione politico-ideologica particolare promuovendo temi originali e assumendo posizioni diverse dagli alleati.
In sostanza è ossessionato dal rischio dell’omologazione politica – e di conseguenza di essere egemonizzato dal Pd. Dopo il crollo di consensi il M5s cerca di recuperare spazio. Per questo Giuseppe Conte si è sfilato da molte iniziative promosse dal Pd marcando il proprio territorio, ad esempio in politica estera. Anche Lega e Forza Italia viaggiano su binari separati, su questi, e altri, temi. Ma non fa problema perché tanto è chiaro chi è al comando. E nessuno pensa di sfilarsi dall’alleanza.
Il problema dell’opposizione allora rimanda alla leadership. Elly Schlein è arrivata da un altrove nel Pd e, per molti, rimane un corpo estraneo – come lo fu, mutatis mudandis, Matteo Renzi. Deve quindi fronteggiare sia una minoranza riottosa all’interno sia un competitor all’esterno. Due sfide connesse. Solo acquisendo pieno controllo del proprio partito può affrontare la competizione per la leadership che Conte, implicitamente, porta avanti.
Essere stato presidente del Consiglio in una situazione eccezionale come nell’anno della pandemia, e aver riscosso il più alto gradimento popolare (nei sondaggi) nella storia repubblicana fino ad allora, rende molto faticoso, psicologicamente, abbandonare palazzo Chigi.
È’ comprensibile che il leader pentastellato voglia ricandidarsi a quel ruolo. E quindi cerca di smuovere gli equilibri adottando scelte eterodosse e rifiutando di accodarsi ad ogni iniziativa proposta dai democratici. Se questa strategia può favorire le azioni del M5s, d’altra parte mette a rischio la coalizione. E soprattutto proietta una immagine di inaffidabilità dell’opposizione. Va bene che Conte definisca i suoi progressisti indipendenti. Ma non troppo indipendenti. Altrimenti ne riparleremo nel 2032.
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