Perché la prospettiva di un ritorno dell’occupazione manifatturiera nel breve ma anche nel medio-lungo termine pare quindi più utopia che realtà
In principio erano i lavoratori. Nella campagna elettorale di Trump del 2016 il tema del lavoro, riassunto nel motto “bring our jobs back” era al centro della proposta repubblicana, che ora ha preso la forma del movimento Maga.
Il lavoro torna oggi prepotentemente al centro delle ragioni enunciate dallo stesso Trump nella confusa politica protezionistica. L’analisi pare essere sempre la stessa: la globalizzazione ha indebolito la manifattura americana, che si è svuotata con la delocalizzazione in paesi in via di sviluppo, in primis la Cina per poi ampliarsi a tutto il sud est asiatico, e non solo.
Questa dinamica ha impoverito i lavoratori americani che si sono trovati inizialmente senza lavoro e poi occupati nei servizi, con salari più bassi, distruggendo la classe media che avrebbe fatto grande l’America, da qui il rapporto tra il ritorno dell’occupazione manifatturiera e lo slogan Maga. Una narrazione che si arricchisce poi con diversi elementi che vanno dall’impatto dell’immigrazione al presunto impatto di accordi commerciali come il Nafta fino al ruolo che avrebbe una bilancia commerciale a svantaggio degli Usa.
Tutto questo ha avuto un ruolo essenziale nella vittoria di Trump e soprattutto nello spostamento dai repubblicani ai democratici del voto operaio e anche sindacalizzato. Non colpisce quindi se nei giorni scorsi il sindacato americano AFL-CIO ha accolto come una opportunità i dazi introdotti. Nella semplificazione portata avanti da Trump ci sono sicuramente elementi di verità e i numerosi fallimenti della globalizzazione nella distribuzione della ricchezza generata dai paesi che l’hanno promossa sono evidenti. Ma la complessità degli ultimi quarant’anni è ben maggiore.
Uno dei fattori da considerare è il ruolo che l’automazione e, in generale, la digitalizzazione hanno avuto nella riduzione del lavoro in manifattura in Occidente e soprattutto negli Usa. Un processo che è sicuramente legato anche alle delocalizzazioni ma che ha generato anche internamente un effetto di sostituzione tra capitale e lavoro che non può essere di certo invertito.
C’è poi il fattore demografico, con gli Usa che nell’ultimo decennio ha perso quasi 8 milioni di popolazione under 35 e che si trova quindi a vivere, pur con una quota crescente di inattivi, una crisi nell’offerta di lavoro culturale (persone che non sono disposte o interessate a svolgere, quando possono, lavori manuali) e strutturale. Il mercato del lavoro americano si è quindi largamente spostato verso i servizi, anche a basso valore aggiunto e che occupano perlopiù lavoratori di origine straniera, per i quali oggi si faticano a pensare pervasivi processi di automazione.
Questo ha peraltro indebolito molto le competenze tecniche dei lavoratori nei decenni, che oggi andrebbero formate nuovamente, con tutti i costi che questo comporta anche in termini di capillare presenza di formatori competenti. La prospettiva di un ritorno dell’occupazione manifatturiera nel breve ma anche nel medio-lungo termine pare quindi più utopia che realtà.
Difficilmente queste evidenze però incideranno nella valutazione delle politiche del governo americano poiché il ruolo della narrazione destruens ha oggi ancora un potenziale che porta a superare i limiti e le semplificazioni della pars construens. Ne è prova il fatto che l’appello a riportare aziende e lavori negli Usa lanciato ormai quasi dieci anni fa dal primo Trump non ha portato ai risultati sperati.
Sullo sfondo restano le grandi contraddizioni in seno ai proclami, a partire dalla difficoltà di comprendere se l’obiettivo finale è quello di instaurare veramente politiche protezionistiche o, come a volte viene dichiarato, contrattare per un azzeramento dei dazi “reciproci”, il che avrebbe risultati completamente differenti.
La sfida di Trump, e insieme a lui di tutta l’internazionale sovranista e critica della globalizzazione, dovrebbe essere quella di proporre un modello nuovo che possa superare le criticità del passato, che oggi ci consegnano il conto, ma allo stesso tempo essere in ugual modo vantaggiosa per tutti gli attori economici. In questo starà la riuscita nei prossimi anni del pensiero critico della coppia Trump-Vance agli occhi di imprese, lavoratori e quindi elettori.
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